Il mio conto con cosa nostra resta aperto.
Lo salderò con la mia morte, naturale o meno.
Tommaso Buscetta, quando iniziò a collaborare, mi aveva messo in guardia. Mi disse: “Prima cercheranno di uccidere me, ma poi verrà il tuo turno, fino a quando ci riusciranno…”.
Certo, il pensiero della morte mi accompagna ovunque, ma come dice Montaigne, diventa presto una seconda natura.
Si sta sul chi vive, si calcola, si osserva, ci si organizza, si evitano le abitudini ripetitive, si sta lontano dagli assembramenti e da qualsiasi situazione che non possa essere tenuta sotto controllo.
Ma si acquista anche una buona dose di fatalismo: in fondo si muore per tanti motivi, un incidente stradale, un aereo che esplode in volo, un’overdose, il cancro e anche per nessuna ragione particolare…
Come colpisce la mafia? Ognuno è stato colpito nell’attimo della giornata e nel luogo in cui appariva più vulnerabile. Solo condizioni strategiche e tecniche determinano il tipo di omicidio e il tipo di arma da impiegare. Con una persona che si sposta con l’auto blindata è gioco forza ricorrere a metodi spettacolari…
Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande.
Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.
In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.
Cosa nostra ha a sua disposizione un arsenale completo di strumenti di morte. Per il fallito attentato del 21 giugno 1989 alla villa che avevo affittato all’Addaura, vicino a Palermo, erano stati piazzati tra gli scogli 50 candelotti di esplosivo.
La mafia è razionale, vuole ridurre al minimo gli omicidi. Se la minaccia non raggiunge il segno, passa a coinvolgere intellettuali, uomini politici, parlamentari, inducendoli a sollevare dubbi sulle attività di un poliziotto o di un magistrato ficcanaso o esercitando pressioni dirette a ridurre il personaggio scomodo al silenzio.
Alla fine ricorre all’attentato.
Il passaggio all’azione è generalmente coronato da successo, dato che cosa nostra sa far bene il suo mestiere. Tra i rari attentati falliti voglio ricordare quello organizzato contro di me nel giugno ’89. Gli uomini della mafia hanno commesso un grosso errore, rinunciando alla abituale precisione e accuratezza, pur di rendere spettacolare l’attacco contro lo Stato…
La lupara sta passando ormai di moda. Il famoso fucile a canne mozze, che una volta firmava i delitti mafiosi, quest’arma artigianale di inconfondibile carattere contadino, è sempre meno adatta alle esigenze della mafia moderna.
Oggi si preferiscono generalmente le armi a canna corta, la calibro 38 e la 357 magnum a proiettili dirompenti. Per gli attentati più complessi e difficili vanno bene le armi a canna lunga di fabbricazione straniera.
Per non parlare degli esplosivi utilizzati non solo a casa mia, ma anche nel 1983, per l’assassinio del giudice Rocco Chinnici, spazzato via dallo scoppio telecomandato di un’auto imbottita di tritolo. Rimaniamo a questo delitto.
È stato scritto: “Essi hanno voluto sopprimerlo alla libanese per gettare Palermo nel terrore”.
In realtà essi l’hanno ucciso nel solo modo possibile, causando 5 morti e distruggendo una decina di automobili perché Chinnici era molto prudente e attento in tema di sicurezza personale.
Impariamo a riflettere in modo sereno e laico sui metodi di cosa nostra: prima di sferrare l’attacco compie sempre uno studio serio e approfondito. Per questo è molto difficile prendere un mafioso con le mani nel sacco. Si contano sulle dita di una mano quelli arrestati in flagranza di reato: Agostino Badalamenti sorpreso con la pistola in pugno e che riuscì a farsi passare per matto…
Nell’organizzazione di cosa nostra violenze e crudeltà non sono mai gratuite, ma rappresentano sempre l’extrema ratio, l’ultima via d’uscita quando tutte le altre forme di intimidazione sono inefficaci o quando la gravità di uno sgarro è tale da meritare solo la morte…
Per gli uomini d’onore quel che conta è il coraggio dimostrato dall’omicida, la sua professionalità.
Quanto più cruenta, spietata, crudele l’esecuzione appare ai nostri occhi di semplici cittadini, tanto più fiero può andarne l’uomo d’onore e tanto più esaltato sarà il suo valore all’interno dell’organizzazione.
Cosa nostra si fonda sulla regola dell’obbedienza. Chi sa obbedire, eseguendo gli ordini con il minimo di costi, ha la carriera assicurata.
Devo dire che fin da bambino avevo respirato giorno dopo giorno aria di mafia, violenza, estorsioni.
Nell’atmosfera di quel tempo respiravo anche una cultura istituzionale che negava l’esistenza della mafia e respingeva quanto vi faceva riferimento.
Cercare di dare un nome al malessere sociale siciliano equivaleva ad arrendersi agli attacchi del Nord…
Quando è capitato il primo pentito ,avevamo alle spalle un lavoro enorme. Ma prima di lui, prima di Tommaso Buscetta, non avevo che ho un’idea superficiale del fenomeno mafioso.
Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia del fenomeno.
È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti…
Oltre ad avermi insegnato una lingua, Buscetta mi ha posto di fronte ad un problema decisivo. Mi ha fatto comprendere che lo stato non è ancora all’altezza di fronteggiare un simile fenomeno. Mi ha detto: “non credo che lo Stato Italiano abbia veramente l’intenzione di combattere la mafia”. E poi: “dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. È con me faranno lo stesso punto non dimentichi che il conto aperto con cosa nostra non si chiuderà mai”.
Giovanni Falcone, pubblicato su La Stampa, 24 Maggio 1992.